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Edward Paul Abbey, l’ambientalista armato

Posted on October 21, 2014 in Recensioni

Matteo Brogi: Edward Paul Abbey, l’ambientalista armato

Personaggio scomodo, Edward Paul Abbey. Americano, nato nel 1927 in Pennsylvania, morto nel 1989 e sepolto nella nuda terra in un luogo conosciuto solo ai suoi amici più cari, è stato un uomo che in tanti hanno cercato di inquadrare in uno schieramento politico o di piegare alla propria utilità. Io non lo farò. Rispetto la memoria di chi ci ha preceduto e cercherò solo di far conoscere ai miei lettori il suo pensiero che, per certi aspetti, si incontra con i nostri interessi.
Amante della natura incontaminata, del West americano, strenuo difensore dell’ambiente dalla prevaricazione della nostra civiltà dei consumi, Abbey è stato preso a modello dal movimento ecologista radicale, quello che ha generato i cosiddetti eco-terroristi. A torto o ragione non sta a noi dirlo…
Uno dei suoi romanzi più fortunati, The monkey wrench gang, tradotto in Italia con il titolo I sabotatori e pubblicato da Meridiano Zero, racconta la storia di quattro cittadini statunitensi che, per opporsi all’incedere della civilizzazione, la combattono con la dinamite e qualche fucilata. Una storia che è diventata d’ispirazione per quei movimenti, che sempre accuso di usurpare il termine “ambientalista”, che vedono nella conservazione della natura fine a se stessa la propria ragione d’essere. E che, grazie alle azioni teorizzate da Abbey per i personaggi del suo romanzo, hanno trovato un modo per rivitalizzare i propri strumenti di attivismo.
Ma lo scrittore americano, che era laureato in filosofia e nel suo curriculum vantava un’esperienza di ranger nello Utah, era ben oltre quello che piace ai movimenti “ecologisti” radicali. Era infatti un uomo libero che non esitava ad avere delle opinioni, anche scorrette. Le sue posizioni in materia di armi, d’immigrazione e sulla condizione femminile facevano discutere e sono state volutamente insabbiate per dare di lui una visione edulcorata, strumentale.
Fondamentale ad illustrare questo lato della personalità di Abbey, un suo testo del 1979 dal titolo The right to arms, di cui si rischia di perdere traccia. Questo saggio prende spunto da una massima dei più convinti fan del secondo emendamento alla Costituzione americana: se le armi saranno fuorilegge, solo i fuorilegge avranno le armi (If guns are outlawed, only outlaws will have guns). Premesso che il testo completo dell’intervento è disponibile in rete all’indirizzo qui, la riflessione di Abbey prende spunto dalla considerazione che in tutti gli stati che hanno vissuto esperienze autoritarie o dittatoriali (il terzo Reich nazista, l’Unione Sovietica, l’Iran, il Sud Africa, Cile ed Argentina, la Cina comunista) il possesso delle armi è sempre stato monopolizzato dallo stato o, quantomeno, strettamente controllato. Cosa significa tutto questo? Abbey se lo spiega così: “Non sono un appassionato di armi. Possiedo un paio di armi di piccolo calibro ma raramente le stacco dal muro. Ho smesso di cacciare il cervo quindici anni fa quando i cacciatori cominciarono a superare per numero i cervi stessi. Sono un membro della National Rifleman Association. Sono un liberale, fiero di esserlo. Mi oppongo, assolutamente, a qualsiasi cambiamento che lo stato possa attuare per restringere il mio diritto a comprare, possedere o portare un’arma. Che sia un fucile, una carabina o una pistola”. Semplice e diretto, in altra parte del testo Abbey concorda sul fatto che debbano esserci delle limitazioni al possesso delle armi parlando espressamente di minori, soggetti patologicamente squilibrati e di criminali condannati ma ammette di guardare con grande sospetto ogni sforzo attuato dal governo per controllare il diritto alle armi. “La registrazione delle armi da fuoco – prosegue l’autore – è il primo passo verso la confisca. E la confisca delle armi sarebbe il passo più importante e probabilmente fatale verso un governo autoritario, il controllo di molti di noi da parte di un nuovo ordine di gentleman”. Un problema, quello dell’invadenza statale nella vita dell’individuo, che molto preoccupa Abbey; e Abbey vede nel fucile l’arma della democrazia: “speriamo di non dover mai usare le nostre armi ma non dimentichiamo cosa la gente comune di questa nazione sapeva quando pretendeva la carta dei diritti: una cittadinanza armata è la prima difesa, la miglior difesa, la difesa finale contro la tirannia”.
Questo, dell’Abbey-pensiero, si è cercato di nasconderlo. Io stesso avevo sempre inquadrato questo autore nella schiera dei personaggi impegnati “contro”, fuorviato da certe sue dichiarazioni contro la lobby delle armi e della grande industria americana cui è stato dato rilievo dai media americani. Dichiarazioni spesso estrapolate dal contesto generale da una stampa cieca, desiderosa di mostrare solamente ciò che fosse strumentale alla sua battaglia contro le armi e il loro impiego. Poi, pochi anni fa, ho visto una foto di Abbey attaccata al frigorifero di una casa spersa tra le praterie del Montana. Una foto inequivocabile, con una didascalia: “zio Ed ha catturato un trofeo da 16 pollici”. Nella foto, accanto ad un Abbey armato di doppietta, anziché il palco di un cervo, un televisore con schermo da 16 pollici, appunto, perfettamente centrato da un colpo. Un’immagine posata, quasi ricercata nella sua semplicità. Un manifesto programmatico: tutto è lecito per difenderci dalla cosiddetta civilizzazione, dalla dittatura della televisione, da una certa globalizzazione e dalle storture della società dei consumi. L’applicazione di un’altra delle frasi di Abbey che vengono più spesso citate, spesso a sproposito: “un patriota deve sempre essere pronto a difendere il suo paese contro il suo governo”. Lui ha provato a farlo senza farsi omologare negli schemi e rispettando la sua convinzione più profonda: “il sentimento senza l’azione è la rovina dell’anima”.

Il libro
Edward Abbey, I sabotatori, Meridiano Zero, edizione 2001, ¤15,50

Pubblicato in America nel 1975, il romanzo racconta le gesta di un gruppo di quattro eco-attivisti, curiosamente assortito, che viaggiano nel West americano cercando di porre un freno all’incontrollata espansione dell’uomo. La loro opera si realizza mediante azioni di sabotaggio contro progetti di sviluppo industriale che mettono a rischio aree geografiche non ancora contaminate dalla presenza umana. In un crescendo di ambizioni, i protagonisti compiranno imprese sovversive sempre più eclatanti in grado di produrre gravi danni a cantieri e a manufatti già realizzati (ponti, linee ferroviarie, strade, cartelloni pubblicitari). Scritto per scopi di intrattenimento, come lo stesso Abbey dichiarò, il romanzo è stato preso a modello da movimenti ecologisti intransigenti, quasi un manuale di guerriglia; ad esso si è ispirato il movimento radicale Earth First! nato sul finire degli anni ’70.

Edward Paul Abbey
Nato il 29 gennaio 1927 a Indiana, in Pennsylvania, si laureò in filosofia all’Università del New Mexico. Dopo la laurea servì l’esercito americano nell’ultimo anno del secondo conflitto mondiale con compiti di polizia militare, a Napoli. Negli anni ’50 iniziò la sua carriera editoriale; Jonathan Troy fu il suo primo romanzo (1954) a cui fece seguito The brave cowboy (1956) da cui fu tratto l’omonimo film interpretato da Kirk Douglas. Nello stesso periodo lavorò come ranger stagionale per lo US Park Service allo Arches National Monument, nello Utah. Su questa sua esperienza scrisse Desert solitaire (Deserto solitario, Muzzio, fuori catalogo), il racconto autobiografico che lo fece conoscere al grande pubblico nel 1968.
Ma il grande successo letterario gli arrise nel 1975 con I sabotatori. Fuoco sulla montagna del 1962 è l’unico altro titolo di Abbey degli otto che ha scritto attualmente disponibile in lingua italiana (Meridiano Zero).
Morì il 14 marzo 1989. Il suo corpo è stato seppellito dai suoi amici più cari in un luogo segreto, probabilmente nel deserto della Cabeza Prieta, in Arizona.


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